I Somba vivono nel nordovest dell’attuale Benin, sui monti Atakora. Sono contadini, fortemente refrattari agli influssi stranieri. Vivono in piccole comunità, in fattorie fortificate di grande compiutezza architettonica. Essi sono conosciuti anche come Be Tammaribé (plurale di Otomari), che significa “quelli che sanno costruire”. Le loro abitazioni, tèkyêtè, sono tra le costruzioni più belle e affascinanti del continente africano: piccoli castelli turriti, fatti di argilla, dominati dai coni aguzzi dei tetti di paglia. Anche le costruzioni dei vicini Ssolo, che vivono nel Togo, e dei Tambernu del Burkina Faso, sono simili a queste. Le case comprendono una decina di torri rotonde, alte due o tre piani, circondate da un muro che arriva al secondo piano, privo di aperture verso l’esterno, salvo la porta d’ingresso e qualche piccola feritoia. L’unica entrata al complesso familiare è controllata dall’uomo più anziano del gruppo.
L’abitazione gravita intorno ad uno spazio scoperto centrale, disimpegno e sala comune al tempo stesso. Una scala permette di raggiungere una terrazza al di sopra dell’abitazione; alcune delle torri sono ricoperte da tetti conici di paglia.
Lo spazio tra le torri è coperto da una terrazza, che serve per le attività domestiche (cucina, deposito, ecc.). Nelle torri più grandi ci sono le camere, in quelle più piccole i granai. Il piano inferiore è destinato ad animali e uomini, soprattutto per gli anziani che non ce la fanno più a salire le ripide scalette scavate in un tronco. Alla destra di chi entra c’è l’altare degli antenati. La destra è considerata sacra ed è riservata agli uomini.
Al pianterreno abitano la madre di famiglia e le ragazze. Durante la bella stagione, la vita di gruppo si trasferisce sulla terrazza, compresa la cucina e la zona di pranzo in comune. Dall’alto di queste “fortezze”, le donne possono osservare e sorvegliare i dintorni mentre gli uomini sono al lavoro nei campi. Spesso vi trascorrono anche le notti, in piccoli ricoveri. Le singole abitazioni familiari distano tra loro, in media, dai cento ai centocinquanta metri.
La casa somba, pur nella sua bellezza, è e rimane una fortezza. Probabilmente i Somba arrivarono all’Atakora dal bacino dell’Alto Volta tra il sec. XVI e il XVII. Entrarono subito in contrasto coi cavalieri Bariba, perfettamente organizzati per la guerra. Si rifugiarono così tra le montagne costruendo fortini facilmente difendibili con le frecce avvelenate. La dispersione delle case divideva gli assalitori, rendendo più facile la difesa.
Un esempio interessante dell’uso dell’argilla cruda è offerto dalle case “a guscio” dei Musgùm, tra il nord del Camerun e il Ciad. Questi begli edifici a forma di ogiva, sempre più rari oggigiorno, venivano costruiti con strati di terra e strame battuti direttamente nello spessore del muro, su piante rotonde, con degli sbalzi esterni a forma di ferro di lancia, o di V rovesciate. Bisognava lasciare indurire ogni strato, prima di costruire il successivo, e le sporgenze degli strati inferiori fornivano una specie d’impalcatura permanente per i muratori, che così non facevano uso di nessun ponteggio di legname. Oltre a permettere di salire sino al culmine della costruzione, alto spesso più di 5 m, queste sporgenze a ferro di lancia erano molto decorative e assolvevano anche la funzione di rallentare la discesa dell’acqua piovana lungo la costruzione e di diminuirne la forza erosiva.
L’atto di costruire in terra racchiude una particolare magia, suscitata dal fatto stesso di plasmare l’elemento più essenziale e fecondo del pianeta. Proprio questa fertilità del materiale sembra spesso ingenerare in coloro che se ne servono un particolarissimo slancio creativo che li porta a indugiare nel piacere di modellare quella materia vivente sino a far nascere dalle proprie mani morbide rotondità, dolci da accarezzare. L’architettura ridiviene così l’espressione d’una profonda pulsione creativa e, al contempo, lo spettacolo d’un piacere.
Piacere dei sensi, che irradia lo spazio domestico e quello comunitario d’una dimensione erotica, tanto intensamente vi si esprime la libertà di concepire forme nate dal ventre stesso della terra.
Talvolta dunque, per esempio nel Mali, l’architettura di terra travalica i limiti tecnici dell’edificio, in un godimento della materia prima e in un piacere sensuale. Questo slancio culturale viene trasposto in un linguaggio tanto più vivo e stimolante in quanto è in perpetuo divenire, viene perennemente rigenerato: le forme di tale vocabolario scultoreo sono infatti rimodellate, reinterpretate, rivitalizzate ogni anno dopo la stagione delle piogge, come in una festa rituale. Creazione in presa diretta sulla materia, poiché non richiede strumenti complessi né sapere accademico o tecnologico. Esige, invece, il desiderio di partecipare, in armonia con il retaggio culturale e in sintonia con il paesaggio, alla vitalità delle tradizioni della collettività e alla loro eterna rinascita.
Nelle case di terra regna spesso una singolare armonia, dovuta all’uso d’un unico materiale nonché alla qualità degli spazi e dei ritmi determinati dalle regole tradizionali di tale pratica architettonica. Da questi interni, modesti o sontuosi che siano, emana quasi sempre una conturbante spiritualità e una sensualità tonificante. Grazie al ricorso a un unico materiale nel trattamento di muri, volte, pilastri, sedili, camini e talvolta piani d’appoggio e “mobili”, queste architetture d’interni divengono vere e proprie creazioni artistiche intimamente connesse a ritmi della vita quotidiana, sculture viventi abitate dagli uomini e da loro genio decorativo. Questa potenza creativa assume diversa natura nelle moschee, il cui spazio è trattato come una foresta di massicci pilastri che scandiscono l’area di preghiera e le conferiscono tutta la sua forza emozionale.
Oltre a questi pregi di carattere spirituale, le architetture di terra posseggono anche notevoli qualità di benessere termico. Sono fresche in estate, calde in inverno. Gli spessi muri di terra, oltre a costituire un’efficace protezione contro gli eccessi del clima esterno, regolano in modo naturale la temperatura interna, con un rilevante risparmio energetico. La riattualizzazione delle architetture di terra permette appunto di ritrovare questa logica e questa saggezza. Ma la nozione di benessere termico che, essendo prettamente psicologica, non è quantificabile, rivela il carattere culturale del processo mentale che induce taluni fruitori (spesso rappresentati dai privilegiati della società) ad apprezzare la terra per le sue proprietà di comfort e di calore e per il suo carattere materno e rassicurante, ecologico e artistico, mentre altri (sovente i più poveri) tendono piuttosto a sentirvi il peso d’un arcaismo che percepiscono come ostacolo alle loro aspirazioni sociali al consumismo e all’ostentazione d’immagini più materiali del “progresso” moderno.
Dal libro:
Popoli d’Africa, Liutprand ed.