venerdì 13 gennaio 2012

Un testimone nella Libia dopo Gheddafi

Della Libia, dopo la caduta di Gheddafi, ci siamo dimenticati. La NATO si è ritirata e le notizie sul paese sono sparite dai telegiornali. In Libia non c'è la pace, non è ripresa una vita normale. Scontri a fuoco sono all'ordine del giorno, continua l'emergenza sanitaria e gli effetti dei bombardamenti si vedono e si sentono. Anche nella capitale Tripoli la vita riprende a rilento con continui black out elettrici, i telefoni che funzionano a singhiozzo, l'acqua che manca molto spesso. Ci sono in piu' realtà ancora piu' tristi come quelle dei campi profughi perchè in Libia c'è stata una guerra che ha lasciato sul terreno segni pesanti che non si cancelleranno facilmente. Nel paese non è tornata la pace. 
Verso la Tunisia continua il "turismo medico" verso le cliniche e gli ambulatori, avveniva prima del conflitto ed è aumentato ora. In Libia mancano farmaci, molti ospedali sono stati pesantemente danneggiati e la ricostruzione stenta ad iniziare. E' come se il paese  vivesse in una specie di limbo, in attesa di qualche cosa che deve anocra succedere. Chi durante il regime di Gheddafi si era schierato con il rais, oggi si ritrova a vivere nella disperazione e nella povertà. La Mezzaluna Tunisina continua a distribuire aiuti umanitari a queste persone, a Djerba arrivano i libici e per la prima volta si incontrano libici poveri che camminano per strada allo sbaraglio.

Diario di Sebastiano Nino Fezza

9 gennaio 2012
sono appena arrivato a Tripoli, apparentemente la citta' e' tranquilla, ci sono pero' in giro molti uomini armati che probabilmente vengono da fuori citta', arrivando dall'aeroporto siamo passati vicino all'abitazione di gheddafi totalmente distrutta, parte dai bombardamenti e parte buttata giu' dalla folla.




10 gennaio 2012
Non sono i fatti che voglio raccontarvi, quello lo hanno fatto abbondantemente i mass media in questi ultimi mesi, quello che vorrei raccontare sono le sensazioni e le atmosfere che si vivono in questo paese. Tripoli sembra una citta' a due velocita', la mattina e' deserta, ci sono pochissime persone che girano, e lo fanno in maniera spedita, non vedi i gruppetti di gente ferma agli angoli delle strade, tipico del mondo arabo, ne vedi donne che si soffermano a parlare nei mercati, fanno quello che devono in maniera veloce e poi vanno via. Da mezzogiorno alle cinque la citta' e' come impazzita, il traffico e' congestionato, per percorrere un chilometro in centro abbiamo impiegato piu' di un'ora. La gente riempie le strade, fa quello che deve e va via. Dopo, lentamente la citta' si svuota, fino ad arrivare alla notte. Dopo il tramonto e' meglio non uscire, i rischi di cattivi incontri sono molto alti. La tensione e' quasi palpabile, lo vedi da come la gente si muove e dalle facce preoccupate, tese, come se stesse per risuccedere qualcosa. Oggi ci hanno fermato appena hanno visto la telecamera.


12 gennaio 2012
Taorgha e' una citta' di circa 40.000 abitanti ad una trentina di km a nord est di Misurata, almeno lo era, e' stata completamente rasa al suolo dalle milizie ribelli perche' gli abitanti erano considerati filo gheddafi. La popolazione e' piu' scura di pelle e quindi vengono chiamati in senso dispregiativo libici negri. I sopravvissuti si sono sparsi nel paese e molti sono finiti a Tripoli. Sono stati ricoverati in campi profughi improvvisati, campi fatiscenti, senza servizi igienici, dormono in 15 in 10 metri quadrati, con i materassi stesi per terra. Gli uomini sono rassegnati e spaventati, non vogliono parlare con noi per paura di ritorsioni, le uniche a parlare sono le donne, sono le piu' arrabbiate, ci raccontano delle violenze subite, delle morti e delle sparizioni di figli e mariti. Una nota di ottimismo e speranza la trasmettono i bambini, e' proprio vero, i bambini sono uguali in tutto il mondo! Sorridono, sono curiosi, si avvicinano, ma soprattutto giocano, con una incredibile fantasia e manualita' costruiscono i loro giochi, se guardate le foto vedrete un biliardino costruito con una cassetta di legno, dei bastoncini, e tappi di sughero. Noi grandi dovremmo piu' spesso fermarci a guardarli, ci danno lezioni di civilta' di allegria ma soprattutto di speranza per il futuro.




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13 gennaio 2012
Venrdi', giorno di festa in Libia, la citta' e' praticamente deserta, negozi chiusi e pochissima gente per strada. La popolazione si reca nelle moschee per pregare. Siamo stati in un altro campo profughi, questa volta si tratta di una tribu' del nord i Musciascia, anche loro accusati di essere filo Gheddafi e quindi villaggi bruciati e gente che fugge perdendo tutto. Solo a Tripoli ci sono 12 campi ufficiali dichiarati dalle nazioni unite, in realta' ce ne sono molti di piu' non ancora censiti. Stessa storia, stessi racconti di disperazione e di brutalita' subite. Una madre disperata che i suoi 4 figli maschi sono stati catturati dalle milizie e si sono perse le tracce da otto mesi. Un altro ragazzo ci ha mostrato le torture subite, bruciature di sigarette sul collo e sulla schiena, ovviamente  non mostrando il viso, la paura di essere riconosciuti e perseguitati e' fortissima. Mi viene in mente un film di qualche anno fa', FRATELLI COLTELLI questa e' la sensazione che si percepisce, ma non doveva essere una guerra di liberazione dal regime di Gheddafi? A me sembra qualcosa di diverso, una resa dei conti tra tribu' e gruppi diversi. la motivazione ufficiale e' che alcune tribu' appoggiavano il presidente e le altre no. In realta' la sensazione e' che ci si stia per preparare ad una "pulizia etnica". Qui la sera si sente sempre sparare, ieri notte hanno sparato sptto il nostro albergo, questa mattina ho saputo che per festeggiare un matrimonio hanno sparato "a festa" con i kalasnicov



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Continuero' a raccogliere le notizie che arrivano dai nostri amici in Libia.

giovedì 5 gennaio 2012

Vi presento la nuova Tunisia



Il 22 novembre si è riunita a Tunisi al Palazzo del Bardo la prima sessione dell’Assemblea Costituente, quell’Assemblea eletta dal popolo, che rappresenta la gente della Tunisia, che dovrebbe scrivere la nuova Costituzione del paese. Le sorprese non sono mancate. I neo eletti sono stati accolti da un gruppo di manifestanti che volevano ribadire il ruolo della Costituente e l’importanza della “poltrona” occupata quale rappresentante del popolo ed emissario delle sue richieste. Le rivendicazioni erano molteplici dall’opposizione al Sesto califfato dichiarato dagli estremisti islamici al desiderio di non schierare lo stato con favoritismi verso alcun paese esterno in particolare Stati Uniti, Francia e Quatar. Già in passato interessi economici personali sono intervenuti nei giochi di potere trasformando una repubblica in un business economico privato del Presidente Ben Ali e le famiglie affiliate.

Tahar Hamila, il piu’ anziano degli eletti, aveva dichiarato aperta la Prima Assemblea Costituente.

Lasciando da parte i numeri e le valutazioni politiche il colpo d’occhio della sala parlava da solo. Se si guardavano separatamente vincitori ed opposizione sembrava di parlare di due paesi differenti, uno islamico e uno occidentale. La differenza era netta e lampante e la grande maggioranza degli eletti di Ennahda dominava la sala. Le inquadrature della telecamera mostravano i due volti del paese, due modi di vita diversi, due modi di vestirsi diversi, due atteggiamenti diversi. Non parliamo solo di velo per le donne ma una sensazione trasmessa al pubblico che riduce ad un’esigua minoranza la parte moderata o comunque di coloro che desiderano una Tunisia piu’ vicina agli stili occidentali. La Tunsia deve aspettarsi ancora molte sorprese e l’opposizione dovrà lavorare molto bene per garantire i diritti dei suoi cittadini, soprattutto quelli delle donne. Ghannouchi esce di scena e lascia il posto agli eletti del suo partito che rispecchia una popolazione che affianca la religione alla loro vita quotidiana. Sono sicuramente scelte personali e assolutamente rispettabili se tenute lontano dalle aule in cui si discutono le leggi che reggeranno un paese. Qui possono coesistere in modo esemplare come è avvenuto fino ad ora, nel totale rispetto reciproco. Bisogna tener conto che molti degli eletti hanno poca dimestichezza con i giochi politici e dovranno imparare presto a difendere le loro idee, quelle per le quali sono stati votati e per le quali rappresentano i cittadini.

In questo momento tutto il paese guarda a Tunisi. Una calma di attesa regna nel paese anche se molti sono pessimisti, timorosi per il loro futuro, per un’economia che ha difficoltà a riprendersi, ad un turismo che ha ridotto alla fame intere regioni. La gente è stanca e non sono pochi che dichiarano di vedere molto nebbioso l’avvenire, è il discorso della maggior parte delle donne che pensano ai loro figli e hanno smesso di illudersi, cercano soluzioni concrete e certezze che ancora stentano ad arrivare. Si pensa alla scuola e a tutti quei messaggi che arrivano sul connubio scuola e religione, agli usi e costumi che possono cambiare cosi’ rapidamente se solo una legge “sbagliata” vienisse approvata da quell’Assemblea Costituente dalla quale chiunque puo’ trarre le sue conclusioni, senza conoscere i personaggi, senza capire l’arabo. Molti sono in attesa, pronti a partire per garantire un futuro alle loro famiglie.

E’ passato un mese e mezzo da quella giornata e la Tunisia ha il suo Presidente, Marzouki, anche lui una di quelle figure che rappresenta la volontà di tagliare con il passato. Appartiene a quel gruppo di pesrsguitati da Ben Ali, ha conosciuto la prigione, la tortura e l’esilio. Pochi sono i passi fatti dalla Costituente fino ad ora. Non ci sono prese di posizione drastiche ma nel paese la nebbia non si è ancora diradata. Continuano gli scioperi che causano disagi a tutti. Non c’è una ripresa economica importante ma piccoli segnali di incertezza che non danno garanzia agli investitori stranieri. Con la Befana sono rientrati anche gli ultimi turisti che avevano deciso di trascorrere le festività qui, da oggi in poi si puo’ solo sperare nel buon senso della gente che si rimbocchi le maniche e riprenda a lavorare per il suo paese.

La Dempcrazia in Tunisia è curiosa. Sembra quasi che sia stata fatta una rivoluzione per dar la possibilità agli estremisti islamici di esprimersi liberamente. Le cose che si notano rispetto ad un anno fa sono i titoli dei libri che si possono trovare nelle librerie. Tantissimi giornali e, sugli scaffali, “Il nostro amico Ben Ali” un libro vietatissimo fino ad un anno fa o “La regina di Cartagine” riferito alla moglie dell’ex Presidente. Oggi la gente sciopera liberamente ed esageratamente, con Ben Ali questo tipo di manifestazioni sarebbero state represse. Un’altra espressione di questa nuova demcrazia sono il niqab e “la barba lunga”. Non sono costumi tipici della Tunisia ma, essendo stati vietati, oggi vengono ancor piu’ praticati. Quando guardi la gente per strada non capisci esattamente dove ti trovi qadroun, niqab, sufseri, jeans, tacchi a spillo e houli, anche se le minigonne sono in netta minoranza rispetto a ragazze con il velo o completamente coperte.

Non credo che i martiri si siano sacrificati per questo. Un anno fa in questi stessi giorni violenti scontri infuocavano le strade della Tunisia, si usciva alle 6:00 del mattino con la speranza che qualche volenteroso panettiere avesse sfidato il coprifuoco per preparare il pane o ci fosse nei negozi qualche cosa di piu’ su quei scaffali vuoti. Oggi aspettiamo 15 giorni per riempire una bombola di gas, le consegne non vengono fatte a causa degli scioperi. Il gas serve per cucinare e per scaldare le case, ironia della sorte quest’anno l’inverno è molto rigido. Mancano alcuni medicinali e altri generi di prima necessità come il latte arrivano a singhiozzo.

Speriamo che il buon senso si diffonda nel paese. Certo è che se i segnali sono quelli che arrivano da Gafsa abbiamo poco da aspettarci. E’ ancora questa regione al centro della cronaca, dove la gente è di nuovo in agiatazione dopo il sacrificio di un uomo di 43 anni che si è bruciato davanti alla sede del Governo, insieme alla Facoltà di Lettere di Tunisi nella cui sede si lotta per poter frequentare i corsi in niqab.

Tra pochi giorni è il 14 gennaio e, se sono reali i messaggi che appaiono su twitter, Ben Ali si sta divertendo a vedere andare in rovina il paese che l’ha cacciato. Membri della sua famiglia festeggiano il Capodanno nei lussuosi Hotel di Doha e, allo stesso tempo, non vinene accettata la richiesta della Tunisia per l’estradizione””e_uj, .

Cosa ci resta da fare, ringraziare che le cose vadano meno peggio che negli altri paesi “rivoluzionari” e confidare nel buon senso della gente che prevalga la volontà di costruire e non quella di distruggere.

Sono entrato nel covo del raìs Vi racconto le sue ultime ore

di  il Giornale


L o chiamano Quartiere Due. È un deserto di macerie accatastate, ruderi sventrati, tetti sfondati, facciate affrescate a colpi di katyusha e mortaio. L’imbianchino arrampicato sulla scala ti squadra, tira un colpo di malta e cazzuola, lancia un urlo.
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La necropoli riprende vita. Un ragazzo in divisa sguscia da una voragine. Un altro salta giù da un mezzanino sfondato.
Un terzo sbuca dagli infissi anneriti d’un davanzale. Sono tre, quattro, dieci. Ti circondano silenziosi. Ti bloccano il passo. La nostra guida alza il braccio. «Khalas, khalas – basta, basta - saafi … mafi mouskila. Sono giornalisti italiani, amici nessun problema». Sui volti corrucciati si disegna mezzo sorriso. La prima lingua si scioglie.
«Se venite per scrivere la verità, siete i benvenuti. Tutti parlano di Misurata, Bengasi, Brega, ma nessuno racconta come la Nato e i vostri amici rivoluzionari hanno distrutto Sirte e ucciso i nostri amici». Li ascolti in silenzio. Loro ti trascinano tra appartamenti calcinati, stanze affumicate, mura abbattute.
Per ogni angolo c’è la storia di una famiglia distrutta, di un amico morto, di un bimbo ferito. Tu ascolti, poi la butti lì. «Muhammar, era qui?» La fila si blocca. Saleh, il ragazzo in divisa ti squadra come se avessi nominato Allah. Hussein, lo spilungone sceso dalla scala alza la cazzuola al cielo, immobile e pensieroso. Mabruk ti scruta sorridente. «Non sapevamo che era qui, ti prego non mettermi nei guai, quelli di Misurata mi hanno già sbattuto in galera e torturato. Noi difendevamo solo le nostre case». Ci riprovi. «Ma Muhammar era con voi o no?». Dal barbone cespuglioso spunta un altro sorrisino. Mabruk ci pensa, ti fa segno di seguirlo. C’inoltriamo in quella casbah terremotata, attraversiamo lo scudo martoriato delle prime case, c’affacciamo su un intrico di viuzze ed edifici ancora in piedi.
Mabruk risale verso una slargo. «Era mercoledì mattina, il giorno prima che l’uccidessero - racconta - avevamo mandato via mogli e bambini combattevamo da più di una settimana. Quel pomeriggio durante una pausa dei combattimenti ci chiamano tutti fuori. Io e i miei uomini saliamo verso questo slargo e, lì, in fondo, riconosco Moutassim, il figlio del leader. “Fratelli ci dice – domani dobbiamo andarcene, abbandonare il quartiere e la città… qui ormai è finita, la Nato sa dove siamo, mio padre vuole andare a Wali Jarre, attendere il proprio destino nel villaggio dov’è nato. Chi vuole può unirsi a noi”. Sulle prime non capiamo, ascoltiamo perplessi, confusi. Abbiamo tanti feriti, molti non riescono a camminare, queste sono le nostre case come si fa a mollare tutto? Moutassim ci guarda, ci fa un’altra offerta. “Porteremo via i feriti che possono camminare, ma gli altri dobbiamo abbandonarli”. Noi scuotiamo la testa. No, non si può, sono i nostri fratelli, non li lasciamo indietro. Allora Moutassim ci mostra quella villa…. Laggiù, in fondo alla strada la vedi?».
Dalla piazzetta si distingue appena. Sono due piani eleganti, un tetto di tegole rosse dietro un muro di cinta chiuso da una cancellata. Mabruk salta la recinzione, entra nel cortile. Nel muro sul retro del giardino si apre una feritoia aperta a picconate. Uno spazio sufficiente a lasciar passare un uomo. «Tutte le case del quartiere erano collegate da questi passaggi. Se bombardavano passavamo da un’abitazione all’altra senza mettere il naso fuori. Anche il rais ha cambiato parecchi nascondigli, ma questo è stato l’ultimo. Quella sera ci siamo arrivati dalla piazza, seguendo Moutassim, attraversando muro dopo muro, giardino dopo giardino, mezzo quartiere. Quando mi sono affacciato non credevo ai miei occhi. Muhammar era in mezzo al giardino con un kalashnikov a tracolla, la sua pistola d’oro in una mano ed un bloc notes nell’altra. Prendeva appunti e dava ordini sottovoce alle sue guardie. Ha alzato gli occhi, ci ha salutato. Domani andiamo via - ha ripetuto - se volete seguirci siete i benvenuti. Noi gli abbiamo ripetuto le nostre ragioni. - Rais dobbiamo difendere le nostre case. - Lui ci ha fatto solo un cenno con gli occhi come per dirci vi capisco, poi è sceso nello stanzone, quello lì sotto, vedete, dove adesso hanno ammucchiato sacchi di grano e cibo per tutto il quartiere.
Fino a mercoledì 19 ottobre lui ha vissuto là».
Mabruk torna fuori, risale verso la piazzetta del quartiere. «La mattina dopo abbiamo seguito Moutassim, Muhammar e le sue guardie fino a qui. I 21 fuoristrada erano già pronti, nella notte li avevano coperti con dei rami di alberi per mimetizzarli». Un altro uomo con la divisa del vecchio esercito s’avvicina. Non vuole darci il suo nome. «Il rais ha preso il bloc notes, ha numerato con della vernice tutte le vetture dall’1 al 21, ma nessuno ha capito perché… Subito dopo hanno tentato la prima sortita verso est. Dopo pochi minuti sono tornati, il fuoco era troppo pesante. Allora li abbiamo scortati all’uscita opposta del quartiere». Mabruk si porta una mano al cuore. «Quando l’ho visto partire per Wadi Jarre, per il villaggio dov’era nato, ho capito tutto… cercava un posto dove morire. Non poteva vivere fuori dal suo paese. Per questo era il nostro leader. Per questo non lo dimenticherò. Ma voi non scordatevi di me. Quando scriverete questa storia torneranno a prenderci, ci tortureranno di nuovo. Se fra qualche giorno vedete il mio numero di telefono sul vostro cellulare vi prego venite a cercarci, altrimenti uccideranno anche noi».

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