mercoledì 13 aprile 2011

Così l’intervento della Nato ha peggiorato la guerra civile libica

Le bombe su Tripoli, i cuori strappati, i “mercenari” che parlano il dialetto del sud e le bugie (pericolose) dei media




Quando sento la notizia che i caccia di Muammar Gheddafi bombardano il centro di Tripoli, per fermare la rivolta, mi prende un colpo – racconta Bruno Dalmasso, l’ultimo italiano della capitale libica – Sono al volante e passo proprio dove avrebbe dovuto esserci la strage, ma non trovo un solo segno dell’attacco aereo. Era una bugia”. Bruno è un veterano d’Africa, è il custode del cimitero italiano di Tripoli, che testimonia come fin dai primi giorni della crisi in Libia la disinformazione di grandi media, a cominciare dalla tv araba al Jazeera, ha alimentato il caos. Il colonnello Gheddafi a un passo dal crollo, la rivolta “buona” del popolo contro i “cattivi” del regime, la guerra “umanitaria” della Nato sono il frutto di un’illusione – e ieri, un portavoce dei ribelli ha detto che Italia, Qatar e Francia sono pronti a fornire loro armi “per autodifesa”.

Il 24 febbraio, a Tripoli, tutti i giornalisti erano convinti che la caduta del regime fosse imminente. Si pensava che baldanzose colonne di ribelli in marcia fossero a un passo dalla capitale, ma in realtà non abbiamo mai visto neppure una piccola avanguardia capace di ribaltare il regime nelle sue roccaforti come Tripoli. Con il passare dei venerdì di preghiera le coraggiose proteste anti Gheddafi davanti alla moschea di piazza Algeria, nel centro città, o a Tajura, il grande sobborgo occidentale, sono state represse a colpi di kalashnikov e schierando i blindati. Questi sì erano i veri tentativi di cacciare il colonnello, il contagio dalle piazze del Cairo e di Tunisi. “Ci sparano addosso, non ce la faremo mai”, urlavano di rabbia i manifestanti. Mentre i media di mezzo mondo continuavano a dare Gheddafi per spacciato o addirittura in fuga con tutta la famiglia sui jet privati, lui e il suo clan consolidavano il loro potere. A Tripoli in molti vorrebbero vederlo morto, il colonnello, ma altrettanti, con il fazzoletto verde al collo, lo considerano il “fratello leader”. E lo difendono con le armi.

L’insurrezione fallita nella capitale e nella Tripolitania ha continuato a essere alimentata da una serie di bugie. Fin dalle prime settimane di rivolta i morti sarebbero stati diecimila, con fosse comuni che poi si sono dimostrate normali cimiteri. A questo punto, in piena guerra civile, con i bombardamenti della Nato, dovrebbero essere dieci volte tanto. Secondo fonti degli insorti sarebbero sempre gli stessi o addirittura “diminuiti” a ottomila.
I ribelli sono un miscuglio di società civile, come si direbbe da noi, disertori dell’esercito, giovani laici e fondamentalisti, compresi barbuti che non disdegnano l’emirato propagandato da Osama bin Laden. Al Zawia era un guaio per Gheddafi: è a soli 45 chilometri dalla capitale, ed è stata “liberata” dagli insorti nei primi giorni della rivolta. In una via trasformata in campo di battaglia Mohammed – un giovane con la barba nera dell’islam, il caffettano marrone, pareva un talebano – apriva la strada verso le linee ribelli. Qualcuno voleva dimostrare che uno dei soldati del regime catturati era un mercenario africano – aveva la pelle nerissima. In realtà parlava dialetto libico e veniva dal Fezzan, la regione del sud dove molti sono scuri come all’equatore. I mercenari esistono, ma in gran parte dei casi sono stati arruolati a forza, da una parte e dall’altra, fra i due milioni e mezzo di immigrati, che hanno cercato di fuggire dalla Libia.

La guerra civile è tremenda. Sembra che i “cattivi” siano soltanto gli uomini di Gheddafi: monsignor Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, ha denunciato che “il governo fa fuori gli oppositori senza pietà” andandoli a prendere di notte casa per casa a Tripoli. Sui telefonini dei fan del colonnello girano video di ribelli prigionieri picchiati e costretti ad abbaiare come cani. Ma gli insorti, i “buoni”, non sono da meno. Fin da prima dell’intervento della Nato hanno sgozzato o giustiziato, con un proiettile in testa, soldati e poliziotti fatti prigionieri. File di cadaveri sono state ritrovate con le mani legate dietro la schiena. A Derna e al Beida, roccaforti jihadiste nella Cirenaica, si sono girati da soli il video di quando strappavano il cuore a un uomo di Gheddafi mettendolo in mostra come un trofeo su un carro armato.

L’unico, vero successo dell’intervento aereo della Nato è aver salvato Bengasi, “capitale” dai ribelli, dalla rappresaglia di Gheddafi. Lo stesso colonnello, poche ore prima degli attacchi, aveva pronunciato in tv il delirante discorso del “zanga zanga” (zanga vuol dire vicolo): “Io con altri milioni ripuliremo la Libia dai ratti – urlava – Centimetro per centimetro, casa per casa, stanza per stanza, vicolo per vicolo”. La voce di Gheddafi è stata trasformata in una canzone rap di grande successo utilizzata pure come suoneria dei telefonini.

Bengasi era salva, ma la situazione in Libia è precipitata. Le bombe alleate non hanno fatto altro che alimentare la guerra civile illudendo, ancora una volta, i ribelli e la comunità internazionale che sarebbe finito tutto in fretta. Gheddafi ha reagito distribuendo le armi ai civili che ancora credono in lui. E il regime resiste. Il bunker di Gheddafi a Bab al Azizya è stato colpito soltanto una volta, ma il colonnello fin dalle prime ore dei raid aveva aperto la cittadella fortificata ai fan trasformati in scudi umani. Bab al Azizya è diventata così uno specchio per le allodole, i bunker veri sono disseminati chissà dove. Per non parlare dell’annunciata caduta di Sirte, la città natale del colonnello. Tutte le agenzie internazionali dicevano che era stata presa dai ribelli, ma i poliziotti di Gheddafi erano fuori dalla porta, avevano montato la guardia tutta la notte. Nel centro, al posto degli insorti, si incrociavano mezzi governativi pieni di volontari del colonnello di tutte le età, che sfrecciavano verso il fronte. I ribelli, a decine di chilometri di distanza, sono stati attirati in una trappola. I governativi li hanno ricacciati indietro di oltre duecento chilometri lungo la strada costiera del golfo della Sirte, dimostrando che senza l’appoggio aereo alleato i ribelli non riescono a fare nulla

Dopo quarantacinque giorni di guerra, il colonnello è ancora al potere e cerca la via diplomatica approfittando della stanchezza dei volenterosi. Ieri a Doha sono stati decisi i meccanismi per finanziare i ribelli, che vendono petrolio al Qatar ma dicono di avere bisogno di fondi (e di armi, ma quelle stanno già arrivando). I bombardamenti continuano, la Nato difende il suo ruolo. La Libia è spaccata in due: la Tripolitania sotto controllo del regime, a parte l’enclave di Misurata, e la Cirenaica in mano ai ribelli, come all’inizio della rivolta – che è sempre stata una guerra civile.


Fausto Biloslavo, Il Foglio - 14 aprile 2011

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