martedì 20 settembre 2011

"Chiusi in un ripostiglio in attesa della morte"


"Quando si sono accorti che
il nostro autista Almadhi era
berbero l’hanno trascinato
fuori dal pick-up e l’hanno
ammazzato con una raffica
di Kalashnikov a un metro
di distanza da me"

DOMENICO QUIRICO
TRIPOLI
Ho attraversato la vita di Almadhi soltanto per quarantotto ore. Non l’avevo mai visto prima di martedì a Zarzis, alla frontiera tunisina. «Se vuoi andare a Tripoli lui è il libico che fa per te - mi aveva spiegato un amico tunisino - è un uomo sicuro, lo conosco.

Anche se è pericoloso può farlo e non ti tradirà». Era alto, elegante nella sua jellabah bianca, i capelli un po’ brizzolati nonostante avesse solo 42 anni. Quando gli abbiamo parlato di Tripoli ha scosso un po’ la testa «forse… vediamo, c’è ancora battaglia laggiù...» e indicava in televisione i missili, gli sbuffi di fumo che salivano dalla rovina della caserma di Gheddafi.

Parlava male l’inglese, Almadhi: poche parole e ne soffriva perché era chiaro che avrebbe voluto conoscerci, aveva da raccontarci chissà quante storie del suo paese piagato, costretto ad una guerra tra fratelli. «Nessun problema» ripeteva, a ogni salto sulla strada che conduceva su per la montagna a Zintan, il suo paese, «colpa di Gheddafi» e rideva felice che avessimo capito. Si illuminava anche per le parole italiane che conosceva: motore cambio cabina sterzo differenziale… il glossarietto dell’automobile e dei suoi pezzi, tutto quello che abbiamo lasciato quaggiù in mezzo secolo di colonialismo straccione, briciole della lingua di Dante e di Ariosto. Con altri veleni ed altri guai.

A Zintan si è fermato per presentarci la sua famiglia, orgoglioso come si fa anche da noi tra la gente di montagna, brusca, un po’ selvatica che ha solo questi come gioielli, affetti orgoglio passioni che nascono tra le mura di casa. Il padre che non amava la gente di Tripoli, i cittadini così complicati, così avidi, responsabili per le loro passioni e i loro intrighi della tragedia in corso. E solo adesso posso capire fosse quasi una premonizione. Ci ha mostrato la sua collezione con orgoglio la sua collezione de «le vie dell’aria», pubblicazione degli Anni Trenta che celebrava i fasti di Balbo e dell’ala littoria, «copia in abbonamento per il municipio di Tripoli...»; antichi fogli, quasi intonsi di una Storia scomparsa. E poi i figli e il fratello, stregati davanti a computer, a osservare filmati della lotta tra rivoluzionari e gheddafisti, che sembrano un videogioco e invece sono guerra vera.

Almadhi era un uomo di fede: rispettava al minuto il ramadan, il periodo di digiuno espiazione e preghiera che finirà tra una settimana; anche se la via era lunga e la stanchezza cresceva, l’ho visto pregare davanti a me con la semplicità degli umili, senza enfasi come si compiono gli atti importanti della vita. Al mattino al momento di partire per Tripoli, l’ultimo balzo quaranta chilometri un’ora appena sembrava ancora incerto: mancava la ruota di scorta, la benzina che non si trovava nei banchetti lungo la via (travasata con le bottiglie! In questo paese che è gonfio di petrolio come un otre…). Poi alla fine ha detto sì: perché era coscienzioso, voleva portare a termine il suo lavoro, aveva preso un impegno con noi e sarebbe stato ingiusto tirarsi indietro. Almadhi è morto. Lo hanno ammazzato con una raffica di mitra a un metro da me in una sudicia via di un quartiere di Tripoli, Abu Salim, ancora sotto il controllo degli uomini di Gheddafi, che costeggia i ruderi del suo posto di comando, verso l’aeroporto.

I miliziani sono sbucati fuori e hanno costretto l’auto a deviare, eravamo finiti sulla prima linea della battaglia, ci hanno inghiottito nel loro territorio. Ha capito subito che non ce l’avrebbe fatta «mi ammazzano mi ammazzano…» e ha cominciato a pregare. Aveva un mitra sull’auto, come tutti per sicurezza. Hanno letto sul suo passaporto che veniva da Zintan: città berbera, ribelle, indomabile che ha fatto penare e sputar sangue agli uomini del raiss, da dove la marcia su Tripoli è rotolata fino a qui come un bufera. È caduto nella polvere che ha ingoiato la sua candida jellabah bianca. Non so se è ancora là, in quella strada con altri cadaveri di giustiziati e di morti che ho intravisto nelle strade laterali. A un chilometro, non più, dalla piazza verde, dove l’ebbrezza dei rivoluzionari «vittoriosi» celebrava a raffiche di mitraglia la «conquista» della capitale e qualche banchetto vendeva già i souvenir gli elmetti la buffetteria pallottole inesplose, la bava della battaglia; il «balcone» dei torrenziali proclami della Guida suprema sembrava chiuso per sempre accanto al bassorilievo di San Giorgio che da un secolo continua a uccidere il drago, i trecento metri del ritratto di Gheddafi insudiciavano la polvere della piazza.

Sul grande boulevard Omar al Muktar, il martire libico della lotta antiitaliana con cui con ipocrita furore il Colonnello ci ha costretti a un rimorso cieco, a non vedere i suoi delitti e i suoi sprechi di satrapo; i semafori e gli indicatori del tempo di attesa tra rosso e verde: venti dieci cinque secondi… avevano ripreso a funzionare. Un vecchio in tre parole mi aveva appena fatto la sintesi perfetta della storia libica: «questa piazza prima si chiamava piazza dei Martiri, poi Gheddafi l’ha ribattezzata la piazza verde da oggi si chiama di nuovo la piazza dei Martiri». E non c’era da aggiungere altre parole. Almadhi è morto e io sono vivo. Io tornerò a casa avrò persone che saranno felici di rivedermi, che mi abbracceranno, a cui raccontare come l’abbiamo scampata; saremo felici dobbiamo essere egoisticamente felici. Come non potrebbe essere così? Invece a Zintan, un posto ignoto e povero sulla montagna libica che ha avuto bisogno di una guerra fratricida per diventare celebre ci sono adesso domani tra un mese tra un anno un padre, uomini donne bambini che non potranno farlo: che non si siederanno sui tappeti della stanza buona a farsi raccontare come «papà è stato bravo ad andare a Tripoli», e che le bandiere rosse verdi e nere della rivoluzione anche lì sono ovunque e garriscono felici in attesa che finisca il ramadan e che scoppi la festa della fine del digiuno e dell’espiazione e della vittoria.

Lui è morto e io sono vivo: in queste sillabe è scritta la sentenza della mia colpa. È morto perché io volevo andare in un posto in cui non bisognava andare, attraversare un quartiere vietato, perché mi servivano dieci venti righe in più in un pezzo, un pizzico di «colore». Perché dire quello che si sillaba in questi casi: che era lì volontariamente che era stato pagato, che era libico e doveva sapere... Non c’è nella storia umana responsabilità senza colpa e non c’è colpa che non chieda espiazione. La mia, la nostra sarà di salire oggi forse, domani probabilmente quando la strada sarà più sicura risalire quella montagna entrare in quella casa, sedermi sullo stesso divano e guardare il volto gli occhi il dolore di quel vecchio solido come un olivo antico, di quei ragazzi, il loro dolore.

L’uomo che voleva ammazzarmi, come Almadhi, non saprò mai come si chiama, mi ha sputato addosso sul pick up dove ci avevano caricato mentre altri, i suoi commilitoni, metà in divisa mezzi in borghese libici e non (i famosi mercenari africani dunque esistono e si battono ancora, Gheddafi ha speso bene i suoi petrodollari) colpivano alla cieca in preda al meccanismo terribile del linciaggio, del massacro. Era grasso. Sudato. Non dimenticherò mai i suoi occhi, due fessure attraverso cui l’odio sfuggiva come una piena. C’era in quegli occhi, in quel furore tutta la storia di questa guerra infame e intricata: la rabbia impotente di chi ha perso, che ha visto sbriciolarsi in pochi mesi la sua Storia, il suo mondo i suoi sogni. Che sa che quando sarà dall’altra parte, lui disarmato davanti ad altri uomini armati, libici come lui, gli grideranno le stesse parole, assassino servo di Gheddafi mercenario… e morirà in una raffica perché questa è una guerra tribale e non ci sono speranze per i vinti, non ci sono regole di buona condotta combattenti che fanno il saluto a chi si è battuto con coraggio, non c’è perdono e resurrezione.

I due che mi hanno salvato la vita invece li conosco per nome, non li scrivo perché loro sono ancora di là, nella grande zona della città dove sventolano come se nulla fosse le bandiere verdi del colonnello e i grandi ritratti dei suoi costosi trionfi, gli anniversari innumerevoli non sono sfregiati da nessuna pallottola assassina da nessun piccone vendicatore. Sono entrambi poco più che ventenni, vestono come i ragazzi di tutto il mondo, non portavano armi ma sembravano godere di una enorme autorità anche su coloro che invece spianavano i mitra e l’odio. Non ci avevano mai visti prima non avevano alcuna ragione per assumere per noi scomodi pericoli, responsabilità, nessun vantaggio di alcun tipo ne sarebbe loro venuto né soldi che già ci avevano portato via con i documenti i telefoni satellitari i computer i passaporti. Non eravamo per loro né un salvacondotto né un ostaggio: perché non volevano disertare o passare con gli altri, perché quando quelli arriveranno in quel quartiere davanti alle loro case non potremo essere lì a ricordar loro che sono dei giusti che hanno saputo spezzare quel pane fragrante e difficile da far lievitare qui e ovunque corrono guerra odio volontà di sopravvivere, che è quello della pietà umana della fraternità per chi è in pericolo, della Bontà.

Per questo hanno convinto gli aspiranti giustizieri già con il proiettile in canna, il dito sul grilletto a desistere, ad attendere. Sono riusciti a chiuderci nello sgabuzzino della casa di uno di loro mentre fuori passava e ripassava la battaglia, per toglierci dalla vista. E ci hanno custoditi difesi quando i miliziani ci hanno tirato fuori dal ripostiglio e annunciavano di volerci ammazzare lì, in strada davanti al loro comando. Non sono vittima della sindrome di Stoccolma, la riconoscenza non mi chiude gli occhi e non mi fa succube di chi mi ha salvato. Ma quei due ragazzi mi hanno insegnato praticando negli atti la carità che è la vera, unica forma che assume il divino nel mondo, che non ci sono qui buoni e cattivi divisi da una linea da un fronte da una causa da una bandiera. Sono mescolati tra gli uni e gli altri forse soffocati e zittiti dalla grande nube di odio e di dolore in cui si agitano, ma che il loro senso di giustizia di onore è sempre lì pronto ad affiorare e a manifestarsi.

Ci hanno portati in casa per la notte, custoditi sfamati offerto il telefonino perché chiamassimo l’Italia. La televisione, Al Jazeera trasmetteva le notizie e le immagini della guerra, della liberazione di Tripoli. E loro vedevano sullo schermo l’altra metà dello specchio, le strade i vicoli le trincee i balconi da cui partivano i colpi che brancolavano nell’aria per ucciderli. Riconoscevano quelli che fino a sei mesi fa erano loro amici e vicini di casa e che ora sono dall’altra parte. Qui i legami di tribù di clan sono forti; ma quando il momento della resa dei conti verrà, stavolta forse non potranno riconoscersi stringersi di nuovo la mano. Un vicino che era venuto per chiacchierare e conoscerci, i «sahaffia» i giornalisti prigionieri, ci ha fatto una domanda mentre sullo schermo Sarkozy prometteva altre bombe: io sono libico, un uomo qualunque non sono mai andato in Francia Inghilterra Italia a bombardare... Perché siete qui, perché lo fate nel mio Paese?».

Abbiamo taciuto. Forse dovremo rispondere a questa domanda, subito. Ora. Se non è già troppo tardi. Nel cortile della casa dove eravamo rinchiusi in due gabbiette alcuni uccellini riempivano l’aria del loro canto, indifferenti alle granate al miagolare delle mitragliatrici al rombo dei razzi. Mi è venuta la certezza che non sarei stato ucciso fino a quando quel canto non si fosse interrotto. Ieri mattina quando siamo usciti dalla casa e i due ragazzi ci hanno portato fino al primo posto di controllo del «nemico», dei rivoluzionari, gli uccellini cantavano ancora.

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