ripreso dal blog
Ultimamente in rete si è scatenato un dibattito sulla guerra in Libia e il ruolo dell'informazione,della controinformazione e del giornalismo, in seguito alla pubblicazione di un'articolo di Amedeo Ricucci "Guerra in Libia:Vero e Falso in Rete"(pubblicato anche in questo blog).Di seguito un'articolo di Pino Cabras sulla vicenda e la risposta dello stesso Ricucci.
Di Pino Cabras - Megachip.
Non avevo dubbi che la guerra di Libia edizione 2011 ci avrebbe introdotto a un salto di qualità.
Assistevo alle cose vecchie della guerra presentate in un modo più intenso e nuovo. Tutti gli incubi dei romanzi di Orwell hanno occupato i media con assoluta e inedita sfacciataggine, senza i freni di un tempo.
Da subito era una guerra della percezione che avrebbe cambiato in profondità un mondo già fiaccato da un lavoro ai fianchi durato decenni, guerra dopo guerra, media dopo media.
Questo sistema implacabile lo percepivo da anni.
IL RESTO È PROPAGANDA
È con questa ispirazione che quando nel 2008 aprii un blog volli ricopiare e tradurre nella homepage - oltre a una citazione di Orwell - anche una frase di un giornalista argentino allora poco noto in Italia,Horacio Verbitsky, un pilastro nella memoria dei desaparecidos: «Periodismo es difundir aquello que alguien no quiere que se sepa, el resto es propaganda.» Ossia: «Giornalismo è diffondere quel che qualcuno non vuole che si sappia, il resto è propaganda.»
Ed è per questo che per tutto agosto 2011 - mentre in Libia infuriavano i bombardamenti e le battaglie - sulla homepage di Megachip abbiamo dato un posto d’onore a un’intervista all’inviato di guerra Amedeo Ricucci già pubblicata a marzo, un racconto di prima mano sulla micidiale manipolazione con cui veniva costruito il consenso alla guerra, con intere redazioni ormai embeddednel flusso dell’informazione pianificato dai militari, con i direttori dei giornali che falsificavano imperiosamente perfino le carte geografiche.
Immagino sia stato lo stesso spirito a spingere proprio Ricucci il 24 agosto 2011 ad aprire un blog e a mettere anche lui la stessa versione italiana della frase di Verbitsky. Quella frase che piaceva a me piace ormai a molti, e sono contento. Vedo che si sta diffondendo come un virus. La rete è così.
NEBBIA DI GUERRA A TRIPOLI
Perciò mi ha molto sorpreso scoprire che uno dei primi post del neonato blog di Amedeo Ricucci se l’è presa di brutto con noi, definiti «i boys di Megachip». La colpa? Essere parte, «mano nella mano», di «una strana compagnia di giro» che avrebbe stupidamente pensato di combattere la propaganda dei ribelli libici – che ha generato una «errata (e interessata) percezione degli avvenimenti in corso» all’origine dell’intervento Nato – con una propaganda speculare e perdente, interamente guidata da Gheddafi.
A parte la considerazione semi-assolutoria (e piuttosto riduttiva, diciamolo) nei confronti della Nato, che avrebbe scatenato navi, elicotteri, truppe speciali e missili da crociera solo perché si è fatta fregare dagli scalcagnati uffici stampa degli scalzacani di Bengasi, Ricucci sintetizza così la questione: «Addirittura si è messo in dubbio la conquista di Tripoli da parte dei ribelli, si è parlato di set cinematografici allestiti da Al Jazeera in Qatar, si è scritto e veicolato un mare di sciocchezze, a dispetto di tutte le testimonianze di tutti i giornalisti che erano sul posto, al solo scopo di dare una mano al regime di Gheddafi e ai suoi ultimi, disperati tentativi di restare in sella.»
Altolà! La conquista di Tripoli da noi messa in dubbio non è stata quella effettiva e militare poi realizzata sotto l’ombrello Nato, bensì quella virtuale che “anticipava” e “accompagnava” gli avvenimenti nell’ambito di una strategia interamente militarizzata di disarticolazione del Nemico, purapsywar in cui di giornalismo non rimaneva più nulla. Ricordiamolo, com’era in TV, in rete e nei giornali, quel 21 agosto tripolino. Ricucci era sul campo con giubbotto antiproiettile e casco - e la cosa la rispetto assai – ma non poteva avere la visione che invece arrivava nelle case occidentali. Quel giorno si raccontava che gli insorti “liberavano” Tripoli senza incontrare alcuna resistenza, che l’aeroporto era già conquistato, che decine di migliaia di persone, a dispetto delle sparatorie feroci ancora in corso, gremivano le piazze della capitale per sbandierare i nuovi vessilli che avevano in caldo da tempo (perché il cliché di ogni menzogna di guerra di matrice atlantica ha bisogno del tripudio in cui la massa festeggia la liberazione). E poi che si diceva? Che il Colonnello era già da Chavez, che il suo DelfinoSeif Al Islam e due suoi fratelli erano già ammanettati dagli eroici ribelli, che Khamis, un altro figlio, quello militarmente più autorevole, era morto in un raid, dopo essere stato solennemente dichiarato morto altre quattro volte dalla coalizione di Bengasi o dalla Nato. Chi smentiva queste notizie false come una banconota da 29 dollari? Certo, le smentiva la propaganda gheddafiana. La quale sovrastimava anche la portata della sua resistenza? Certo, avveniva anche questo.
Ma quando quella propaganda diceva che l’aeroporto non era ancora nelle mani dei ribelli, e lo dimostrava, quello era un fatto, e quella era una fonte interessante. In quel caso meno inquinata di certi telegiornali Rai o del sito di Repubblica che aveva in homepage titoloni su Gheddafi che “ordina di sparare ai bambini” (abbiamo assistito anche a queste orride manipolazioni, non dimentichiamolo mai!).
Perché non ci siamo limitati a pubblicare Ricucci e il blogger Mazzetta, come abbiamo fatto in più occasioni? Perché abbiamo invece tradotto anche Meyssan, che per loro è l’Antigiornalismo?
Il perché li scandalizzerà, ma è molto semplice. In questi ultimi anni, gli organi di informazione dei paesi non inseriti nel flusso informativo a egemonia anglosassone, pur partecipando in modo non neutrale al gioco della comunicazione, sono stati in più occasioni fonti di gran lunga migliori della triviale propaganda che colava dall’altra parte, per una serie di circostanze storiche in cui potremmo inserire anche la guerra di Libia. Prima di ridursi a essere il MinCulPop delle petro-monarchie guerriere, Aljazeera aveva svolto un ruolo di questo tipo, aprendo grandi e nuovi spazi informativi.
Un esempio abbastanza recente? Si pensi a cosa fu la guerra in Ossetia del Sud nell’agosto 2008. Russia Today fornì un’informazione ovviamente filorussa, ancora giudicabile però con normali distinguo e un cauto discernimento. La grande corrente dei media occidentali su quella vicenda invece produsse puro liquame. Interloquire con Russia Today, riprendere certi suoi servizi, consentiva una percezione più vicina alla realtà degli avvenimenti. Perché rinunciarvi? Per paura di essere inglobati in una “compagnia di giro” e così rinunciare a sapere che le immagini della città di Gori bombardata dai russi trasmesse urbi et orbi dalle TV di tutto il mondo erano in realtà immagini di Tzkhinvali martoriata dai georgiani? Il 99 per cento del pubblico occidentale non ha potuto saperlo.
Il 21 agosto 2011 – il giorno della massima pressione su Tripoli - sarà una data da ricordare negli annali dell’informazione. Per chi voleva trovare una notizia attendibile sulla Libia quel giorno era una disperazione. Quella notte scrissi un articolo angosciato, non a caso intitolato “Nebbia di guerra”. Lo avevo scritto al termine di una giornata in cui la stragrande maggioranza delle notizie mainstream si è rivelata poco dopo totalmente falsa. Una giornata in cui le foto e i video erano tutti molto glamour (stile “la guerra è bella anche se fa male”) ed erano veicolati senza filtri dalle redazioni. Essendo immagini passate per la monocorde propaganda dell’odierna Aljazeera erano tranquillamente da catalogare ipso facto come Made in Qatar. Le immagini della Piazza Verde gremita di bandiere erano in parte vere e in parte una montatura. Non quella montatura presunta che pure si è insistentemente affacciata sulla rete, che ci insospettiva e che abbiamo potuto subito sfatare, bensì una montatura più sofisticata, che mescolava immagini di Tripoli con immagini riprese altrove. Non siamo così rozzi da immolarci al tranello della propaganda. Distinguiamo in mezzo alla nebbia, come possiamo. Nel mio articolo facevo appello alla rete per radunare le competenze di decodifica delle immagini. A qualcuno non sembrava giornalismo. Può darsi, ma era uno sforzo onesto di comprensione dei fatti, che ha portato frutti, e avveniva nel giorno in cui diffidavamo di ogni notizia. Rivendico la sensatezza di quell’atteggiamento, visti i fatti.
GLI SPETTRI ROSSOBRUNI DI MAZZETTA
Ricucci, per sostenere che ci siamo fatti fregare dalla propaganda beduina, cita con entusiasmo un articolo, per il quale manifesta analogo entusiasmo Gennaro Carotenuto, in un suo pezzo che – tra le altre amenità - afferma una «marginalità dell’impegno NATO» in Libia. Si tratta di un articolo diMazzetta, intitolato “Quei Rossobruni che difendono Gheddafi”, una tirata astiosissima contro chi si oppone alla guerra in Libia, riassumibile in un azzardato accostamento fra gruppi nazistoidi e la galassia dei siti che fanno informazione non conformista. L’articolo di Mazzetta richiamato da Ricucci fa cioè un’operazione spettacolare con salto mortale: per stigmatizzare quelli che vogliono «inquadrare nel loro elementare schema ideologico tutti gli eventi» arriva a inquadrare posizioni politiche diversissime in uno schema ideologico ultra-elementare, i mitici Rossobruni: essendo una categoria politicamente falsa, storicamente infondata e giornalisticamente puerile potete scommettere che avrà un certo successo. La moneta cattiva scaccia quella buona. Dispiace che ci sia cascato Ricucci. Fa ridere che ci sia cascato Carotenuto, che critica le «convergenze oggettive sull’interpretazione di una realtà per loro troppo complessa»: meglio per lui postulare l’esistenza dei Rossobruni, così la complessità è a posto. Tra l’altro non ho mai capito un mistero di Carotenuto: scrive dei meccanismi dell’imperialismo, critica gli attacchi alla sovranità, ma li applica solo all’America Latina. È come se un tifoso di Maradona avesse un archivio dei soli suoi goal segnati di destro, e trascurasse gli altri. Gennà, è una battuta. Ma non troppo.
Nel minestrone temerariamente rimescolato da Mazzetta, alla fine, quel che gli rode trovare è che ci sia gente che non crede alle versioni ufficiali sui fatti dell’11 settembre 2001. Per lui, farsi quel genere di domanda è già far parte del «circo rossobruno», e più non dimandare. Amedeo Ricucci dovrà a questo punto telefonare a colui che chiama «il mio direttore, Giovanni Minoli», per dirgli che è un rossobruno (in ossequio all’amore per la complessità di Mazzetta). È infatti lo stesso Minoli che recentemente ha condotto una puntata di La storia siamo noi dedicata alle questioni tabù dell’11/9, facendo quello che al dunque fa un vero giornalista: ispirarsi a Verbitsky, anziché a Mazzetta. Il quale, quando parla di rossobruni dice minchiate, quando parla di sovranità dice perfino di peggio, ma che continuerò a consigliare di leggere, quando scrive cose sensate, ancorché non particolarmente originali, come il suo ultimo pezzo sulla Cina. Così come consiglierò di leggere ancora proprio il suo incubo Meyssan, che va preso, come tutti, con senso critico, ma che non è il cacciapalle che dice lui.
UN DIBATTITO SUL BLOG. I COMMENTI DI GIULIETTO CHIESA E ALTRI.
Ed è interessante il vivace dibattito che si è sviluppato all’interno del post di Ricucci, con molti commenti. Troppo lungo per essere riportato qui, ma meritevole di una lettura approfondita. Riporto qui solo alcuni interventi, che ci riguardano da vicino.
Ad esempio il commento di Giulietto Chiesa:
«Noto con curiosità che Ricucci mi nomina per ben due volte, la seconda mettendomi a fianco dei nazi-comunisti. E, poichè ha citato, elogiandolo, il ludibrioso pezzullo del Mazzetta, indirettamente tre volte.
Vedo dai commenti ai suo pezzo che la sua tirata non ha convinto tutti i suoi lettori. Molto bene. Non ha convinto neppure me. Sarei stato più contento che lui avesse citato qualche cosa di nazi-comunista da me scritta a proposito della Libia. Pazienza, mi accontenterò del suo sdegno di giornalista integerrimo. Eppure io farei i conti con il rapporto di forze. Certo tutti quelli che hanno cercato di raccontare la guerra di Libia con un minimo di decenza avranno pure fatto degli errori, forse. E magari avevano qualche contratto da onorare. Ma erano pochini. Prendersela con i pochini è impresa non molto onorevole, se non si dice (forte, senza ambiguità e senza doppiopesismi) che il mainstream ha fatto strame di ogni verità.
Anche l’esimio Ricucci ci racconta la favoletta dei ribelli che hanno conquistato Tripoli. Ma noi abbiamo non una bensì decine di fonti che ci parlano di commandos sbarcati dalle navi della NATO.
E trascurare la copertura aerea della più potente coalizione militare del pianeta non sembra comunque fare grande onore all’acume e alla lucidità dell’integerrimo Ricucci.»
La risposta di Amedeo Ricucci:
«Caro Giulietto, non ho mai negato che l’aiuto della Nato sia stato determinante, anche attraverso le special forces francesi e inglesi, nella conquista di Tripoli (e non solo). Allo stesso modo ho denunciato , fin da subito, le bugie degli insorti di Bengasi e dei loro alleati. grazie alle quali si è arrivati a questa sporca guerra. Quello che non sopporto è che la propaganda veicolata dal regime di Gheddafi – e non la verità dei fatti – diventi lo strumento per opporsi all’informazione mainstream. Così come non credo che l’ideologia – né tanto meno la dietrologia – possano rappresentare una chiave di lettura per decifrare questa guerra e i meccanismi complicati che la muovono. Solo questo ti imputo. Né ti ho mai accomunato ai nazi-comunisti, delle cui farneticazioni non mi curo. Dico però che si è creata una strana compagnia di giro, che mescola i fatti alle opinioni, crede alle favole , e punta a fare politica (o business) e non informazione.. Io faccio il mio lavoro senza avere la verità in tasca, parlo solo di quello che vedo, e mi sforzo di coltivare costantemente il dubbio. Mi piacerebbe che ci fossero meno certezze in giro e maggiore onestà intellettuale.»
Commenti di Simone Santini:
«Egregio dott. Ricucci, sono fieramente uno dei “boys” di Giulietto Chiesa (boy cresciutello, aimé) in quanto collaboro spesso con la testata Megachip con articoli sulle tematiche internazionali, e, quindi, mi sono sentito chiamato in causa dal suo blog. Sulla Libia Megachip ha pubblicato un solo mio intervento, tra l’altro recente, dal titolo “Si scrive Tripoli, si legge Beirut?”, sul caso del nuovo comandante militare di Tripoli, l’ex (ex?) jihadista Belhaj. Più che giornalista io mi definirei un analista di fonti comunicative. Per il mio pezzo ho usato come fonti (ovviamente citandoli) due inviati: Candito (La Stampa) e Valli (La Repubblica). Nel mio pezzo non c’erano notizie che non derivassero dai loro articoli. Ovviamente c’erano anche alcune mie interpretazioni dei fatti. Ora, quel che più mi ferisce, nel suo blog, è l’accusa che fa (anche) a Megachip di rispondere alla “propaganda” con altra “propaganda”, uguale e contraria. Personalmente risponderò per quel poco che mi compete, dato che Chiesa e Cabras (il direttore editoriale del sito) si sanno “difendere” molto meglio di quanto potrei fare io. Ebbene, non credo che lei abbia letto il mio articolo, ma la sfido a trovare e a dimostrarmi un qualunque accenno di propaganda filo-gheddafiana nello stesso. Altrove si è fatta propaganda filo-gheddafiana su Megachip? Magari sì, ad esempio quando hanno postato un suo video, dottor Ricucci, in cui lei parlava della disinformazione di guerra. Anche in quel caso lei è stato una quinta colonna del Raìs libico nel sistema informativo occidentale… o sbaglio? Perché credo che il punto sia questo: i milioni di ascoltatori del Tg1 in questi mesi si sono formati l’opinione che in Libia c’è stata una rivolta di popolo contro un tiranno; chi, come me, con altre migliaia di persone, ha letto Megachip, si è fatto l’idea che in Libia si sia avuto un nucleo di ribellione su cui si è costruito:
1) un colpo di stato progettato all’estero;
2) una politica delle cannoniere di Francia e GB antitaliana;
3) una manovra militare per interrompere un canale di penetrazione della Cina nel Mediterraneo;
4) la presenza di milizie fondamentaliste islamiche tra i ribelli;
5) i ribelli, senza la copertura Nato, sarebbero stati spazzati via;
6) truppe speciali hanno conquistato Tripoli con un putsch e con la copertura aerea della Nato, i ribelli hanno semmai fiancheggiato l’operazione ;
7) il dopo-guerra presenterà problemi gravissimi, con scenari plausibili di libanizzazione, irachizzazione, somalizzazione… ecc. ;
8) le modalità dell’intervento Nato contengono fortissimi aspetti di illegalità rispetto al mandato Onu. Siamo di fronte a crimini di guerra?
Tutto ciò per dire: chi si è formato un’opinione sul Tg1 è stato vittima di propaganda? Qualunque sia la risposta, ritengo che chi si è formato un’opinione (anche) su Megachip, si è immerso nella complessità cercando un bandolo per la comprensione di problemi enormi. La vogliamo chiamare contro-propaganda?».
«Voi accusate Megachip di far parte di una “compagnia di giro” e di aver dato spazio a chi raccontava, essendo sul posto tanto quanto voi inviati, cose diverse rispetto al flusso magmatico, ma sostanzialmente uniforme e spudoratamente menzognero, del mainstream. E non l’abbiamo fatto in maniera acritica perché ogni volta che c’era la possibilità di svolgere una verifica, l’abbiamo fatto. Ci siamo scelti una “compagnia di giro” sbagliata? Dovevamo forse affidarci alla “compagnia di giro” degli inviati del mainstream? Quanto siete riusciti ad influire, Ricucci e Tinazzi (un inviato di guerra che è intervenuto nei dibattiti del blog, ndr), rispetto all’onda di manipolazione e disinformazione che sommergeva gli italiani sulla Libia? Perché lo spettatore-tipo la vostra voce non l’ha percepita per nulla? Potevate starvene anche a casa, non cambiava nulla e rischiavate certamente di meno. Anche la vostra “compagnia di giro” non era la migliore che si potesse trovare in circolazione…
Allora, io penso che ognuno di noi cerchi di fare onestamente qualcosa di utile per gli altri. Ognuno coi mezzi che ha, con la propria vita, con le proprie idee. Cercando di portare a casa un brandello di verità da offrire agli altri. Talvolta ci si riesce e talvolta no... »
Nel dibattito è intervenuto anche Mazzetta, che ancora una volta ha tenuto a ribadire che i nostri articoli gli fanno ribrezzo. E sia. In particolare non gli piace uno mio, “Nebbia di guerra”, che – lo ricordo – iniziava così: «Siamo in piena nebbia di guerra. Circolano immagini di Gheddafi morto, che sono evidenti falsi, ma molti siti dei giornali le presentano lo stesso con il dubbio, e intanto colpiscono l'immaginario collettivo e lo predispongono al parossismo della battaglia finale.»
Mazzetta scrive:
«Bene, Megachip è in grado di citare i “molti” giornali che hanno presentato quella foto con il dubbio? Secondo me no.»
Secondo me invece sì.
Eccolo accontentato:
Se sono stato capace io di “scoprire” queste testate usando un motore di ricerca, perché Mazzetta non ci è riuscito? Ci ha provato almeno? (citazione).
TOTUS JURNALISTICUS E MILITANZA INFORMATIVA
Riassumendo la questione. Non ha senso parlare di “compagnie di giro” e di “oggettive convergenze” sotto categorie fuorvianti, quando ci si trova a ragionare degli effetti della propaganda di guerra. Chi voglia leggere il post sul blog di Ricucci e i tanti commenti, specie quelli del reporter di guerra Cristiano Tinazzi, può cogliere un loro peccato d’orgoglio che deriva dal loro modo d’intendere la professione. Si tratta di rispettabili inviati che nel loro curriculum vantano premi intitolati a giornalisti trucidati in guerra. Il che significa che anche in ciò che dà loro lustro si posa l’ombra dei gravi rischi che corrono, ai quali rimediano rafforzando il loro baricentro professionale. Come esiste la tipologia umana del “totus politicus”, esisterà il “totus jurnalisticus”, chiamiamolo così. Se esiste me lo immagino come loro, che coltivano la loro oasi di integrità professionale ma che come tutti sono ugualmente sommersi dall’immenso sciame delle notizie veicolate dal mainstream: non è un complotto, ma un modo di funzionare del sistema.
Siccome l’autoregolazione del mainstream rende innocui e perfino ottusi i supergiornalisti, e siccome un Ricucci non fa primavera, crescono i luoghi di informazione indipendente, disordinata, meno accorta su certi punti, ma molto più acuta su altri. La novità c’è e il giornalismo tradizionale stenta ad afferrarla, o finge, auspicando che la nottata passi e si possa tornare a quel che c’era. Non comprende la forza del media-attivismo.
Ora per ora si intacca la presunta «autorevolezza» delle gazzette e dei media «prestigiosi».
I vecchi giornali non sono più ormai riconosciuti come autorevoli ma come “ufficiosi”. Consentono quel poco di libertà che però dovrà starsene nel recinto di una critica tollerata. Con spazi sempre più stretti. Il 21 agosto 2011 non c’erano nemmeno quelli.
Occorre vedere più profondamente la tendenza in corso. Le guerre del 2008 e del 2009 (Ossetia e Gaza) a causa della totale divaricazione del mainstream informativo dalla verità hanno spinto via nugoli di lettori scoraggiati che si separavano dai giornali bugiardi – e che tuttavia facevano ancora massa critica – fino a dissiparli in una galassia dispersissima di fonti alternative, le quali erano in pieno boom ma incapaci di aggregare un robusto senso comune, un’opinione pubblica di peso che fosse in grado di incidere più di tanto.
Però cresce un esercito di centinaia di migliaia di lettori che si informa meglio dei direttori, e lo fa prima di loro, e ha già coperto di ridicolo le notizie false poi spacciate per vere.
In un contesto come questo, gli attivisti mediatici rendono un grande servizio. Nel citarli abbiamo imparato che le loro visioni, i loro pregiudizi o, all’opposto, la loro spregiudicatezza, li hanno disposti a dissotterrare notizie dove altri non vogliono, non possono o non sanno scavare. Troviamo, grazie a loro, le notizie e i riscontri che solo una ricerca libera e critica può fornire. E anche Carotenuto, prima di abbracciare a casa sua – che pure si chiama Giornalismo Partecipativo – l’ inservibile spettro rossobruno, farebbe bene a ricordarselo.
Da Megachip
Due, tre cose sul giornalismo militante (2)
Di Amedeo Ricucci
Con un articolo di Pino Cabras, Megachip ha rilanciato il dibattito che si era aperto qualche giorno fa su questo blog, in merito al rapporto fra verità e informazione nella guerra di Libia. Cabras non tiene conto del mio post sul giornalismo militante, ma in complesso è onesto e dice cose interessanti, oltre che ben argomentate. In merito è già intervenuto Cristiano Tinazzi . Io mi permetto di aggiungere solo qualche osservazione:
1) Mai come oggi il giornalismo è in crisi, non solo in Italia, e può recuperare credibilità solo attraverso un nuovo patto di fiducia con l’opinione pubblica, che non ne può più ( almeno lo spero) di un’informazione asservita alla politica e al marketing. Serve innanzitutto ristabilire il primato dei fatti – che sembrano scomparsi, tanto per citare il titolo di un famoso libro – e da questo punto di vista la contro-informazione può giocare un ruolo importante, direi fondamentale, per contrastare la “nebbia di notizie” che affligge spesso i media mainstream. Purchè il suo contributo non sia a intermittenza e non riguardi solo le cause politiche, in nome cioè dell’ideologia, mentre su altri temi e vicende si preferisce il basso profilo o il disinteresse. Va bene perciò denunciare le bugie sulla guerra in Libia, ma non per questo bisogna dire che i bombardamenti della Nato hanno fatto degli sfracelli, o che i ribelli di Bengasi fanno gli stupri di massa, se questo non è vero. Ecco cosa intendo quando dico che alla propaganda non bisogna rispondere con la propaganda. Questo e nient’altro.
2) Le regole del giornalismo - quelle di sempre – devono riguardare tutti: sia i professionisti dei media mainstream che il citizen journalism, fatto da singoli, gruppi o associazioni. E l’informazione è una risorsa troppo preziosa per lasciarla in mano a dilettanti, esibizionisti, mestatori di professione e provocatori, magari al soldo di qualcuno. Da questo punto di vista, tutte le fonti di contro-informazione attive dalla Libia erano sospette: lo era la tv russa RT, lo era Tiziana Gamannossi con la sua sedicente Fact Finding Commission, e lo era infine Thierry Meyssan. Il perchè l’abbiamo già spiegato e quindi non mi dilungo. Averle legittimate è stata una scelta quanto meno discutibile. Ed ha creato ipso facto la compagnia di giro di cui ho parlato.
3) Chiudo con una considerazione. La contro-informazione per la contro-informazione è un peccato di narcisismo. Gratificante, magari, ma pernicioso. Coltivare cioè il proprio orticello, crogiolarsi nel “pochi ma buoni” oppure nel “siamo soli contro tutti”, può infatti favorire la sindrome da riserva indiana, che è il primo passo verso la faziosità. Questo vale per me e vale per tutti
Nessun commento:
Posta un commento